Il principe non dubitava che questi vecchi ricordi vivessero cocenti nell'anima dell'esercito come nella sua; credeva che il suo solo apparire in divisa imperiale avrebbe trascinato i cannonieri a venir meno al giuramento. Il colpo pazzamente temerario finì in modo ridicolo, ma le corti di Parigi e di Vienna ebbero un tremito di angoscioso terrore. Giacché nello stesso tempo fu scoperta tra gli ussari a Vendôme una congiura repubblicana, di cui probabilmente il principe aveva avuto prenozione; e poi, per giunta, i giurati alsaziani pronunziarono tra gli applausi scroscianti del pubblico l'assoluzione dei complici del pretendente. Il fanatismo di eguaglianza di questo popolo stimò lodevole lo spergiuro della giuria, perché il reo principale era stato graziato. Del rimanente, la popolazione guardò l'attentato con una indifferenza, che, se il principe vi avesse riflettuto più scaltramente, avrebbe dovuto incorarlo piuttosto che scoraggiarlo: giacché una congiura siffattamente frivola e scapigliata, sotto un altro governo, sotto un governo radicato nel popolo, avrebbe sollevato un uragano d'indignazione.
In un momento di debolezza il prigioniero mandò a Luigi Filippo una lettera dimessa; e nella solitudine del carcere gli risorse una reminiscenza sentimentale degli anni di scuola in terra tedesca. Egli tradusse l'Ideale di Schiller: "io vidi le sacre ghirlande della gloria profanate da una fronte volgare", vale a dire, quella di Luigi Filippo. E non si convertì affatto: "resto fermo nella mia fede", scrisse alla madre, "e non mi curo dei clamori plebei". Persigny, poi, proclamò baldanzosamente, che la Francia un giorno si sarebbe pentita di essere rimasta sorda al grido di un Napoleone.
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