La domanda, a cui riescono tutti i comunisti: a che mi giova il diritto di acquistare beni, se non ne ho la potenza? una volta posta sul tappeto nella sua violenta banalità, non si poteva più levar via, doveva invece condurre necessariamente alle riforme sociali. Col fatto, in mezzo alle utopie, spuntava qualche singola idea di riforma possibile: la rivista operaia l'Atelier propugnava il suffragio universale, l'istruzione popolare effettiva e le libere associazioni dei lavoratori. Coteste idee, però, erano senza dubbio un granellino di verità in un mare di assurdità: una siffatta letteratura sociale apriva un'ampia lizza a tutte le riprovevoli inclinazioni del tempo. Il gusto dei paradossi piccanti elevò in fine a sistema il pervertimento di tutte le idee: la proprietà è un furto, la donna è il piacere, Dio è il peccato. Quando Fourier con profonda sensatezza designò il lavoro stesso come felicità, i suoi insensati pedissequi ne cavarono subito la conseguenza, che se vuole il lavoro essere grato e piacevole, deve fissare il salario secondo i bisogni del lavoratore. La nozione dell'immanenza di Dio, questo frutto prezioso della moderna speculazione filosofica, fu manomesso dalla più sfrontata sensualità per fondare il "ripristinamento della carne" e accordare a ogni ghiottone il diritto a un consumo illimitato.
La forma rozzissima delle teorie sociali riduceva al minimo il pericolo della loro durevolezza. Quando Barbès, Bernard e Blanqui dichiararono la guerra all'infame proprietà, a questa origine di tutti i mali, a questo ultimo rimasto dei privilegi, il delirio di cotesti così detti comunisti materialisti ricondusse di botto alla ragione la democrazia più moderata, e allo scioglimento dell'alleanza col comunismo.
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