Domandiamo semplicemente: l'anima giovanile di uno schietto movimento di popolo sarebbe stato capace di una tale manifestazione di cinico disprezzo umano? E che cosa si era mai raggiunto con la caduta della monarchia, con la slealtà generale della burocrazia? Solamente una nuova semplice rivoluzione contro il trono, solo un cambiamento alla cima dello stato.
Nessun terzo può descrivere l'inutilità di cotesta rivoluzione più causticamente, che non abbia fatto lo stesso Lamartine con invidiabile ingenuità. Non appena il governo provvisorio nel palazzo di città si fu liberato della calca delle turbe plebee, i novelli capi dello stato si misero a tutt'uomo a fissare le grandi idee politico-sociali, che la repubblica avrebbe realizzate. I tribuni del popolo si frugarono bene nel petto per "trovare quei pensieri che sgorgano dal cuore e che sono la suprema politica, perché sono la suprema natura e la suprema verità". Giacché l'istinto, come c'insegna Lamartine, è il legislatore supremo; chi traduce nella scrittura le decisioni dell'istinto scrive sotto l'alito di Dio! Finalmente i pensatori si alzarono da sedere e con ardente entusiasmo notificarono alle turbe la seguente "filosofia delle rivoluzioni": suffragio universale e abolizione delle leggi di settembre (cioè due desiderii, che Luigi Filippo in sostanza aveva già accettati negli ultimi tempi del suo regno); inoltre alcune nuove acquisizioni, e cioè: fraternità come supremo principio statale, esterminio della miseria mercé l'amore e, per soprassello, soppressione della schiavitù dei negri!
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