L'esercito, compiuto nei giorni di febbraio il suo obbligo, aveva abbandonata senza troppa esitazione la pacifica monarchia borghese; sperava dalla repubblica un tempo di vittorie, si aspettava, quando l'Italia si sollevò, di ricalcare un'altra volta la "via sacra" di Montenotte e di Lodi. Ma la primavera dei popoli, in luogo di allori, gli portò solo tormento ed umiliazione. Già i vincitori di luglio avevano dimostrato poco riguardo per l'esercito; per colmo, gli eroi di febbraio non la rifinirono più dallo scherno verso gli abbrutiti mercenari: aberrazione inconcepibilmente stupida e affatto non francese! Il governo provvisorio esortò invano "a ripristinare l'unità del popolo e dell'esercito momentaneamente turbata". I soldati, la più parte contadini e rimasti fedeli anche nelle variopinte uniformi alle idee sociali del villaggio, erano esasperati dal servizio incessante di quei giorni burrascosi, e per giunta si vedevano sempre più esposti agli oltraggi dei demagoghi; talché l'esercito, che in altri tempi aveva con ardente entusiasmo offerto la spada alla rivoluzione, ora invece si trovò subito di fronte ai fondatori della nuova repubblica con un odio implacabile.
Finalmente la bandiera rossa era a terra, l'autorità dello stato si era rotta con la democrazia sociale, le officine nazionali furono chiuse. La proprietà era salvata e, ciò che più conta, si era acquistata la persuasione, che le fondamenta della nostra società sono più salde di quanto si credeva, e che la "questione sociale" dev'essere risoluta con mezzi più miti di quelli affermati dai radicali degli ultimi quarant'anni.
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