Radunatosi questo parlamento reazionario, l'agente diplomatico liberale Lesseps fu richiamato, e rinnovato con sanguinoso calore l'assalto a Roma. Cadde la repubblica romana, prostrata dalle armi della libertà francese: la Francia prestò servizio di birro al papato di ritorno, e gli ultramontani tripudiarono sulla rovina dei demagoghi senza Dio. Era palmare, che la politica dell'intervento della Francia aveva riportato a Roma lo stesso premio, che in Ispagna al tempo di Luigi XVIII: i più gravi sacrifizi di danaro, di uomini e di riputazione tornarono unicamente a profitto della potenza dell'Austria e del partito reazionario. È indubitabile, che il principe non desiderasse menomamente un ripristinamento incondizionato del papa re; anzi Gioberti stesso attesta con quanto zelo Tocqueville, ministro degli esteri, si adoperasse per ottenere garanzie in pro dei diritti politici dei romani. Se non che il presidente non aveva la forza di resistere alla foga reazionaria dell'assemblea nazionale; né al napoleonide era consentito di lasciare invendicata la rotta delle armi francesi. Cacciato l'eroico manipolo di Garibaldi e ristabilito l'antico sgoverno, il principe indirizzò a Edgardo Ney la famosa lettera, che domandava per lo stato pontificio amnistia, amministrazione laica, principii liberali di governo e il codice Napoleone. Il che non era un richiamo valevole pel momento, giacché il presidente conosceva bene, mentre scriveva, l'implacabile odio vendicativo della Curia; era una riserva per l'avvenire e, insieme, un segno ai liberali di Europa, che il principe non aveva ancora rinunziato per sempre ai sogni rivoluzionari della giovinezza.
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