Questi signori diedero le spalle a Luigi Bonaparte, perché andò a vuoto la loro speranza di dominare l'autocrata.
Specialmente dopo la rivolta del giugno 1849 il presidente sentì la necessità di procedere di accordo coi reazionari. Cercò dapprima di governare parlamentarmente, e nel viaggio che fece nel paese durante l'estate del 1849 si comportò con molta prudenza. Felice occasione di conoscere uomini e cose, e intessere tra il tintinnio dei bicchieri le prime fila della grande cospirazione. Chi oggi rilegge a mente fredda quei brindisi e quei discorsi ufficiali comprende, sempre con nuovo stupore, che solamente i vanitosi oratori dell'assemblea nazionale potevano sorridere di quelle arti di seduzione tanto abili e pericolose. Dovunque, il principe seppe lusingare la boria provinciale: a Rouen lodò la perfezione delle industrie, a Saumur, sede della grande scuola di cavalleria, lo spirito militare; a Poitiers ricordò i giorni procellosi di Carlo VII, ad Epernay le ultime lotte dell'imperatore. Parlò rugiadoso, come un mite uomo di ordine; diffidò dalle teorie dei cervelli esaltati, richiamò alla fede, al rispetto della proprietà e della famiglia. Stimò anche necessario di rievocare un colpo di stato sul tipo di quello del 18 brumaio; perché, spiegò innocentemente, "la Francia non si trova ora nella condizione che richieda un rimedio così eroico". Ad Ham, sicuro, ad Ham, dove la popolazione si affollò tripudiando intorno al prigioniero liberato, egli riconobbe con contrizione i peccati della giovinezza: ora non capiva più quella presunzione che un tempo lo spinse ai tentativi violenti di sovversione, e non lamentava affatto di averli dovuti espiare.
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