Nel frattempo l'imperatore era invecchiato, e i validi coadiutori che sostenevano la sua corona, l'uno dopo l'altro, erano spariti: Saint-Arnaud e Magnan, Pietri e Mocquart, Fould, Pélissier e Walewski, e poi i tre non surrogabili, che più di tutti avevano lavorato con coscienza di uomini di stato alla fondazione duratura dell'impero: Billault, Thouvenel e quel Morny, che aveva inculcato così spesso al despota tentennante la fresca energia della risoluzione netta. D'altronde, qui come per ogni dove, il dispotismo si era rivelato incapace di produrre nuovi grandi ingegni di uomini di stato. L'opposizione delle classi colte si ridestò a nuovo ardore, l'attitudine di fronda ritornò a essere un'arte in moda, e fin dal tempo della ritirata del Messico risonò tra gli avversari il grido sempre più baldanzoso: l'empire est défait. Lo sfasciamento del Crédit mobilier e il disavanzo crescente del bilancio dello stato, lo spopolamento delle campagne e l'urbanesimo suscitarono il sospetto sulla sanità del nuovo rigoglio economico; e la giornata di Königgrätz aguzzò gli occhi sui rischi e le menomazioni alla propria patria. Anche la fiducia dei popoli vicini fu distrutta dalle fondamenta dal brutto affare del Lussemburgo e dalla rioccupazione di Roma. Così, incalzato di dentro e di fuori, dopo reiterati slanciamenti e arretramenti, alla fine Napoleone si buttò avanti sulla strada delle riforme costituzionali, che già aveva aperta col decreto del 24 novembre 1860. Ma il richiamo "guerra o libertà", che saliva dalle fila dell'opposizione, testimoniava tristamente sia dell'oltracotanza abituata a calcare coi piedi il diritto dei vicini, sia, insiememente, della disperazione di un popolo, che sente l'indegnità della propria posizione senza trovare in sé la forza durevole per risollevarsi.
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