L'accomodazione degli spiriti agili non offriva alcun compenso al profondo disgusto morale della nobiltà intellettuale della nazione. Se il vecchio Dupin ricevé un'alta carica dal bonapartismo perché l'infelice era già ridotto "a dover toccare le rendite dei suoi beni"; se il principe Napoleone, che il due dicembre nessuno riuscì a trovare, si affrettò, dopo la vittoria, a entrare nel campo del fortunato cugino; e via di questo passo all'infinito; potevano bene, questi uomini, consolarsi col sublime apoftegma di Dupin: "io ho sempre appartenuto alla Francia, non mai a un partito". Ma all'accorto autocrata certamente sorgeva spesso il dubbio, se erano davvero coteste le forze morali, su cui potesse reggersi un regime. Una volta un dignitario dell'impero proclamò: "Per le moltitudini come pel singolo vale la regola, che chi domanda e ottiene favore, si lega di gratitudine a chi glielo ha concesso. Questo impone il pubblico pudore". La verità di coteste parole, la cui sovrana alterigia di virtù richiama Guizot, doveva apparire evidente a ogni imparziale, ma difficilmente a una burocrazia, che già aveva visto a terra tanti troni. Burocrazia, d'altronde, la quale con tutta la sua solerzia di servizio covava però uno spirito di corpo affatto deciso: salita in alto in nome dell'"ordine", voleva serbarsi ceto dominante e perciò, dai prefetti fino alle guardie campestri, era reazionaria nell'anima. Anche il partito del governo, che col dolce appoggio dei prefetti era entrato nel corpo legislativo, era composto di fanatici dell'ordine.
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