Lo stesso intento, così esaltato dai radicali, del dominio diretto del popolo, trovava pochi partigiani: in generale in questo mondo di business non vi era più posto per le teorie e gl'ideali. Una parte degli operai capì effettivamente ciò che i bonapartisti inculcavano loro senza tregua, che, cioè, "solo un governo forte e saldo può recar loro i miglioramenti, che gli arruffapopoli promettono a vuoto". Ma era vano cercare un vestigio di gratitudine sincera verso l'imperial benefattore. Se i potenti dell'impero piaggiavano le mani callose, se il poeta bonapartista Méry cantava agli operai della Tipografia centrale delle Ferrovie:
sachez bien que le jour viendra où de vos mains jaillira la lumière;
il quarto stato ne tirava la teoria, che esso governava l'impero e che la corte lo temeva. In verità, era assai breve la via che correva tra queste lusingherie e l'atroce canzone, che dopo la rivoluzione di febbraio sgargagliavano per tutti i canti della capitale:
un jour viendra que le riche éclairé donn'ra sa fille au forçat libéré!
Pochi mesi dopo che Jules Favre aveva pomposamente assicurato, che non esisteva plebe a Parigi, le petroliere della Comune apparecchiavano l'orrenda festa dei morti! Gli atti del Congresso del Lavoro di Ginevra del 1866 porsero un quadro istruttivo del cambiamento di animo di queste classi. Non un discorso sulle fantasticherie comunistiche dei tempi andati. Si disputò commercialmente, con talento pratico e con minacciosa serietà: gli operai intendevano di diventare capitalisti, consideravano la povertà e il salario come un'infamia e desideravano quanto meno la riduzione della giornata a otto ore, laddove al tempo della rivoluzione di febbraio le moltitudini si tenevano a dieci ore.
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