La potenza della Francia si levò gagliarda davanti all'astro dell'Inghilterra che impallidiva. Il napoleonide riuscì ad estirpare interamente l'odio mortale alla perfida Albione, che per quarant'anni aveva dominato l'anima dei francesi. Ora si guardava al Canale con amicizia di buoni vicini, perché non si aveva nulla più da invidiare all'Inghilterra. Lo stato isolano sonnecchiava a tutt'agio sui guanciali della dottrina di Manchester, e se talvolta sobbalzava spasmodicamente per rafforzare la squadra di corazzate o per aumentare il numero dei suoi disutili reggimenti di volontari, allora il mondo sentiva quanto fosse avvizzito l'orgoglio dell'Inghilterra. Siccome all'alleanza con questo stato non era più da dare troppo peso, Napoleone si volse ad avviare la buona intesa con la Russia. Al Congresso di Parigi trattò con riguardo l'ambasciatore dello czar, favorì le mire russe nelle provincie danubiane, porse aiuto alla fondazione della grande Rumania, e mandò perfino una flotta a incrociare nell'Adriatico per soccorrere, all'occorrenza, i montenegrini. La Francia era di nuovo in grado, per la prima volta dal tempo del Congresso di Vienna, di procedere a disegni positivi nella formazione della novella Europa, e la guerra d'Italia comprovò, che una volontà prudente guidava il potentissimo stato.
A chi si volta a guardarli, i grandi rivolgimenti compiuti appaiono semplici e spiegabilissimi, e futili rispetto alle speranze del domani i loro risultati duraturi. La gente ingiusta, che oggi rivà al potente anno 1859 con le idee del 1871, non vuole ponderare sul serio con quanta gratitudine i più saggi e competenti patrioti d'Italia, i Cavour e i D'Azeglio, apprezzarono le benemerenze di Napoleone III verso la loro patria.
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