Tali erano in sostanza le speranze di Napoleone. E ciò che stupisce di un tal disegno non è la perfidia, è la pietosa imbecillità. Il despota era invecchiato, viziato dalla fortuna, viziato dalla sommissione dell'Inghilterra e dell'Italia. Si pensava di padroneggiare in lungo e in largo la rozza Prussia. Non sospettava nemmeno, che i premi splendidi, quali egli sognava, li raggiunge solamente l'energia alacre, la fusione di tutte quante le forze dello stato. Pensava di mietere comodamente dove non aveva seminato.
Napoleone principiò col dare al proprio paese desideroso di pace una prova della sua mansuetudine: convocò a Parigi una conferenza: al cui successo era impossibile che credesse. Il giorno 11 di giugno, a guerra già decisa, una lettera al ministro degli esteri annunzio le speranze dell'imperatore nell'avvenire della Germania. Diceva di desiderare un ampliamento di territorio solamente nel caso che la carta di Europa si fosse alterata a esclusivo vantaggio di una potenza. Il napoleonide proclamava e affermava il diritto della Francia di esaminare i disegni della riforma federale tedesca: diritto, che il principe di Metternich aveva accordato allo straniero per l'appunto in quei trattati di Vienna tanto esecrati da tutti i Bonaparte e discendenti! Ma egli lascia stare in pace il diritto, e si contenta di desiderare, per gli stati centrali, una federazione più stretta, un'organizzazione più salda e una parte più importante; per la Prussia, una maggiore omogeneità e potenza nel Settentrione; per l'Austria, la conservazione della sua posizione cospicua in Germania.
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