Luigi Napoleone dové sentire abbastanza amaramente gli affronti fattigli in pieno viso dalla Prussia; eppure è affatto fuor di dubbio, che dopo la pace di Praga pensò sul serio talvolta a lasciar tranquillo lo stato tedesco. Aveva sperato di vincere in facili cimenti un nemico mezzo trituzzato; ed ora gli stava a fronte la nuova Germania, rigida in catafratta. Ora una guerra contro la Prussia era una lotta per l'essere o il non essere; e l'uomo ormai attempato non si sentiva più la forza a un tale sbaraglio. Né erano i suoi amici quelli che più sonoramente alzavano il grido di guerra. Sui piani di Lombardia aveva compreso, che gli erano negate le doti del condottiero; e d'altra parte le stesse forze fisiche difficilmente gli sarebbero bastate a un'altra campagna. E un maresciallo francese che dal Reno fosse ritornato in patria col lauro della vittoria, sarebbe stato per la Casa Bonaparte appena meno pericoloso di un generale tedesco, che per la terza volta fosse entrato a Parigi.
Se non che, si era frattanto venuta a formare nel popolo francese una generale disposizione di animo, profonda, piena di conseguenze, che noi tedeschi non consideravamo abbastanza nella sua schiettezza. Quella medesima venefica passione dell'invidia, che noi così spesso abbiamo rilevata nell'odio di classe della più antica storia francese e nel fanatismo di eguaglianza della nuova, esercitava anche adesso e sempre la sua azione nella politica estera dei francesi. Questo popolo aveva sempre il bisogno di odiare comunque un altro popolo dal profondo del cuore; e, se vogliamo prestar fede agli storici francesi, una nazione che si consacra a cotesta passione soave, è torturata perennemente dal rovello di un'ambizione sterminata.
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