Non cade dubbio, che anche nei suoi ultimi anni, e i più malfermi, Napoleone III era sempre più saggio, più moderato dell'enorme maggioranza dei suoi compatrioti: il suo ministro Rouher in mezzo ai retori belligeri del corpo legislativo parve sovente il solo uomo pensante in un branco di forsennati.
L'imperatore sentiva già vacillarsi il terreno sotto i piedi; gli toccava di appagare comunque la gelosia irritata della nazione. Prese opportunità dagl'imbarazzi finanziari della corte olandese per vedere di conquistare alla Francia il Lussemburgo. La scelta non era infelice, perché la guarnigione prussiana in cima al vecchio dirupo non poteva più appellarsi a un titolo indubbio di diritto. Se i francesi, con l'acquiescenza del re granduca, vi si fossero inerpicati all'improvviso, non sarebbe stato poi facile alla Prussia oppugnare il fatto compiuto. Ma la crescente ritrosia di azione dell'imperatore lo ritenne, lo attenne a intavolare quelle negoziazioni diplomatiche, che poi gli giocarono il disegno. E con quale cinismo l'affare fu trattato! Che cosa è più stupefacente, il lordo negozio con la degenerata casa bancaria degli stessi Orange, oppure il perfido dispaccio francese del 28 febbraio 1867, il quale innocentemente opinava, che certamente la Prussia avrebbe trasferito più volentieri alla Francia la fortezza di Lussemburgo, anziché all'Olanda? Non ostante la partigianeria dimostrata dalle grandi potenze all'albagia francese, i maneggi terminarono con un altro smacco dell'imperatore, che nemmeno questa volta si trovò l'animo bastante alla riscossa.
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