Essi sembrano perfino talvolta essersi indotti all’esperimento più per convincere gli altri che per convincere se stessi, e perché l’appello ai fatti era per loro, in certo modo, la linea di minor resistenza per penetrare nella dura cervice dei loro avversari, ai cui preconcetti essi non potevano contrapporre senz’altro i propri, senza appoggiare questi a qualche base meno soggettiva di quanto non fosse la loro propria convinzione individuale.
Non sarà superfluo citare qui qualche fatto concreto in appoggio a queste considerazioni. Tra i molti che a tale scopo mi offrirebbe la storia della meccanica, scelgo il seguente che ha per di più il vantaggio di presentare in chiara luce il contrasto tra l’induzione e la deduzione, com’era concepito ed espresso da Galileo. Nelle postille al libro intitolato Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco, filosofo peripatetico, Galileo combattendo l’opinione degli aristotelici, che le velocità di due gravi cadenti stiano nella stessa proporzione dei loro pesi, alla quale oppone la sua, che cioè tali velocità non dipendano affatto dai pesi, scrive come segue:
«Resta che io produca le ragioni che, oltre alla esperienza, confermano la mia proposizione, sebbene per assicurar l’intelletto, dove arriva l’esperienza, non è necessaria la ragione, la quale io produrrò sì per vostro beneficio, sì ancora perché prima fui persuaso dalla ragione che assicurato dal senso. Io mi formai un assioma, da non esser revocato in dubbio da nessuno, e supposi, qualsivoglia corpo grave discendente aver nel suo moto grado di velocità, dalla natura limitato ed in maniera prefisso, che il volerglielo alterare col crescere la velocità o diminuirgliela, non si potesse fare senza usargli violenza per ritardargli o concitargli il detto suo limitato corso naturale.
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