Al contrario di quel personaggio di Molière che si stupiva di aver sempre parlato in prosa senza saperlo, noi ci dovremmo stupire di parlare continuamente in poesia senza accorgercene.
Né questo ci nuoce, come non nuoce all’analista, che indaga le proprietà delle funzioni, l’adoperar frasi che alludono o sono desunte dalla loro rappresentazione geometrica, e come non nuoce al geometra parlare di spazi a n dimensioni, o di punti comuni a curve che non s’incontrano.
Leibniz ha notato a ragione come perfino la terminologia degli scolastici, che passa per essere tipicamente arida e il più possibile sfrondata da ogni lenocinio retorico, e dalla quale come è noto abbiamo ereditato la maggior parte dei termini tecnici astratti riferentisi alle operazioni intellettuali e ai concetti fondamentali della scienza, è interamente improntata alle più grossolane analogie tra i fenomeni mentali e quelli del mondo fisico.
Si rifletta, per esempio, all’importanza che assumono in essa vocaboli come i seguenti: «impressio», «dependere», «emanare», «influere», «inhaerere», «fundamentum», «infundere», «transmittere», ecc., ai quali tutti l’avere assunto un nuovo senso astratto non impedisce affatto di suggerire all’occasione idee che si riferiscono solo al loro senso concreto e materiale, e di provocare o dar forza persuasiva a ragionamenti che, indipendentemente da questa loro primitiva interpretazione, non avrebbero forza o plausibilità alcuna.(61)
E tanta è la potenza delle parole e del fascino che esse esercitano sulla mente degli uomini, non esclusi i filosofi e gli scienziati, che, in virtù di esse, più d’una teoria morta e sepolta da secoli può continuare ad essere adoperata inconsciamente in appoggio di alcune delle sue più remote conseguenze, e trovarsi nel caso di quel cavaliere di cui cantò il poeta:
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Molière
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