Una tale universalità potrebbe, tutt’al più, condurre a considerare la norma in questione come qualche cosa di tanto immutabile e inesorabile come una legge di natura, ma, come benissimo osserva l’autore, l’acquistare coscienza della impossibilità di sottrarsi a una legge è cosa ben distinta dal riconoscerne la giustizia o la desiderabilità; è cosa affatto diversa dall’approvarla e ritenerla preferibile ad altre che noi potremmo immaginare vigenti al posto di essa, e, finché tale approvazione o preferibilità non sono sentite, la subordinazione alla norma in questione non sarà un volere ma un subire, come si subisce qualunque cosa, per giusta o ingiusta che sia, quando non si può evitarla.
L’attribuire alla norma di cui si tratta una qualche «funzione sociale», o in altre parole, il prendere in considerazione le conseguenze che, dalla sua osservanza o non osservanza, deriverebbero alla convivenza sociale, potrà servire a spiegarne l’universalità, ma non mai a giustificarne l’imposizione, a meno che la detta funzione, o le conseguenze suddette, non fossero riconosciute tali da favorire il raggiungimento di qualche fine o risultato atto per se stesso a giustificare l’adozione dei mezzi che ad esso conducono.
Con che si ricade nel secondo dei due modi sopra distinti di «giustificazione razionale», il quale viene così a comprendere anche tutto ciò che nel primo vi può essere di accettabile; e il compito fondamentale dell’etica viene a esser concepito come consistente nella scelta e subordinazione dei fini supremi, o riconosciuti universalmente come tali, della vita sociale, e nella determinazione e coordinazione delle norme di condotta la cui osservanza è atta a garantirne e a renderne compatibile la realizzazione.
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