Ma tale scelta e subordinazione sono esse puramente arbitrarie, e atte a variare a seconda delle speciali tendenze e aspirazioni, o delle particolari vedute «metafisiche» proprie a ogni singolo ricercatore o alla scuola filosofica a cui egli appartiene, o è possibile venire in proposito a qualche conclusione che, come avviene per le scienze esatte, non possa essere rifiutata da alcuna persona che sia al fatto dei dati del problema? E i «fini supremi», a cui sopra si accennò, sono essi suscettibili di essere caratterizzati con una sola formola comprensiva che tutti li riassuma e li contenga?
Nonostante la sua opinione, forse troppo ottimistica, sulla possibilità di trovare risposte soddisfacenti a queste domande, l’autore non si dissimula le difficoltà che si frappongono a tale impresa.
Per ciò che riguarda, anzitutto, la convenienza di raggruppare sotto una sola denominazione generica (quali per esempio la «felicità», la «perfezione», il «progresso», ecc.) l’insieme dei fini ai quali si riconosce un valore superiore e universale, è da notare come la semplificazione che così si ottiene sia più apparente che reale, in quanto la stessa difficoltà e arbitrarietà che si è evitato di affrontare ricorrendo a tali termini (abbastanza astratti per poter essere da ognuno interpretati in un senso che s’accordi coi propri apprezzamenti, qualunque essi siano) ricompaiono poi inevitabilmente ogni qualvolta si tratti di applicare la formola generale a qualche caso concreto.
I «postulati» che in tal modo si ottengono possono assomigliarsi a delle bottiglie vuote nelle quali ognuno è in potere di versare il liquido che più gli piace.
| |
|