Anche per le volizioni umane, adunque, la questione se esse siano o no regolate da leggi fisse non deve ne può affatto essere confusa coll’altra: se esse siano o no efficaci a produrre quei fatti che noi chiamiamo le nostre «azioni volontarie».
Ora la tesi che l’autore sostiene è questa: che delle suddette due questioni la prima soltanto è quella sulla quale una ragionevole differenza d’opinione può sussistere tra i sostenitori e i negatori del libero arbitrio, mentre è solamente la seconda quella la cui decisione può in alcun modo interessare chi va in cerca d’una «giustificazione» del diritto di punire.
Per ciò che riguarda la seconda vi potrà infatti essere disaccordo sulla maggiore o minore importanza pratica della distinzione tra azioni volontarie e azioni involontarie, o sulla maggiore o minore convenienza di ricorrere, per provocare o impedire le prime, a mezzi diversi da quelli a cui è necessario ricorrere per provocare o impedire le azioni involontarie. Ma che delle azioni volontarie esistano, che, cioè, alcuni di quei fenomeni che noi chiamiamo le nostre azioni godano della preziosa proprietà di verificarsi o non verificarsi a seconda dei nostri desideri o dei nostri timori riferentisi alle conseguenze che da esse noi crediamo siano per derivare, è un fatto di cui possiamo assicurarci allo stesso modo come ci assicuriamo che esistono metalli capaci di essere intaccati da un dato acido, o gas capaci di essere liquefatti ad una data pressione.
I sostenitori del libero arbitrio hanno certamente torto quando riguardano l’esistenza di azioni volontarie, o, in altre parole, l’efficacia delle nostre volizioni, come provata da non so quale testimonianza intima della coscienza, invece di riguardarla come una legittima induzione dai fatti dell’esperienza; ma il loro torto maggiore è quello di credere che i loro avversari, negando il libero arbitrio, intendano negare un fatto così evidente e così irrecusabile.
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