Negare alla società il diritto di punire un delinquente quando si possa accertare che la sua punizione non porterà ad essa alcun vantaggio, o, ciò che è lo stesso, affermare che il delinquente in tali condizioni ha il diritto di non esser punito, non è conseguenza di una qualsiasi scoperta nel campo dell’antropologia criminale o della sociologia, ma è semplicemente un risultato di quell’affinarsi del senso morale, che non permette più che alcun essere umano venga assoggettato a delle sofferenze inutili.
D’altra parte non sono anch’esse preoccupazioni riferentisi all’interesse generale della società quelle che producono, nei penalisti della scuola classica, la ripugnanza ad accettare il concetto della «difesa sociale» come criterio diretto della giustizia penale? Insistendo a riguardare la pena come un mezzo rivolto a promuovere, non il «benessere» della società in genere (che ciascun cittadino è libero d’intendere a suo modo), ma quello speciale elemento indispensabile di tale benessere che consiste nella protezione dei cittadini contro le violazioni di determinati loro diritti, facendo appello, in altre parole, al loro principio della «tutela giuridica», i penalisti «classici» non si proponevano che di precisare, nel miglior modo possibile, quale fosse il genere di «difesa sociale» che il diritto penale ha il compito di organizzare, e contro quali pericoli ad esso spetti di difendere la società. Che questo loro modo di precisare il compito della pena implicasse un concetto troppo ristretto dei doveri della società nella prevenzione del delitto era una conseguenza del fatto che essi, per ragioni storiche facili a comprendersi, si preoccupavano soprattutto dei pericoli ai quali la libertà degli individui poteva essere esposta da un’insufficiente limitazione del diritti della società sui suoi componenti.
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