Né queste critiche, che l’autore muove ad alcuni lati difettosi e facilmente riparabili delle teorie «positiviste», lo rendono meno entusiasta nel riconoscere i meriti della scuola che le sostiene, soprattutto in quanto essa ha cooperato a porre in luce come la pena non sia né il solo né il più importante dei mezzi che la società può e deve porre in opera per ridurre al minimo il numero dei reati, in quanto cioè essa ha contribuito a mostrare come la efficacia intimidatrice della pena presupponga la presenza di determinate condizioni psicologiche e fisiologiche indipendenti dalla volontà del delinquente e della cui assenza egli non deve quindi esser ritenuto responsabile, e in quanto ha dato, infine, un potente impulso alle riforme sociali che tendono a togliere le cause della delinquenza e a estirparla dalla radice. «L’efficacia della pena è presto esaurita: è presto raggiunto il limite oltre il quale un aumento della severità di essa non produrrebbe più una diminuzione corrispondente negli attentati al diritto». Con una frase che riuscirà chiara ai cultori dell’economia pura, si può esprimere ciò dicendo che l’«efficacia marginale» della pena decresce rapidamente e tende ad annullarsi col crescere della sua severità. Ma, d’altra parte, e continuando la stessa metafora economica, è giusto anche notare come il decidere in quale proporzione convenga ricorrere alla pena o a ciascuno degli altri mezzi che la società ha a disposizione per prevenire il delitto, è sempre una questione di misura e di scelta tra due mali, e non può risultare che da un bilancio comparato dell’efficacia di ciascuno dei mezzi in questione, in confronto agli speciali inconvenienti propri a ognuno di essi.
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