Ma se basta così, per una scienza, la sola speranza di poter un giorno diventar suscettibile di trattazione deduttiva per autorizzarne l’iscrizione nel novero delle scienze «teorematiche», quali ragioni si potranno addurre per concedere tale privilegio a una scienza qualsiasi e non ad un’altra?
Forse che i concetti di cui si serve la biologia, che l’autore classifica tra le scienze «teorematiche», sono più vicini a poter essere qualificati come delle «idee chiare» che non quelli di cui si serve l’astronomia che egli pone invece tra le scienze «storiche»?
Il fatto è che la distinzione che l’autore ha tentato di stabilire tra «scienze di leggi» e «scienze di fatti», lungi dal dover essere considerata come fondamentale, corre gran pericolo di non sussistere affatto, di non corrispondere cioè ad alcuna differenza sostanziale tra scienza e scienza.
Ciò che ha indotto l’autore ad attribuire ad essa, nel suo schema, un rilievo così ingiustificato, è il concetto, a mio parere radicalmente erroneo, che egli si fa del metodo e dei processi che caratterizzano le scienze più astratte, quali in particolare la geometria e la meccanica.
Partendo dalla dottrina cartesiana, secondo la quale le nostre cognizioni non sono veramente «scientifiche» e «razionali» se non in quanto si presentino come il risultato di un lavoro di analisi delle «idee» degli oggetti a cui esse si riferiscono, analisi che, decomponendo tali idee nei loro elementi, ci permetta di vedere, nel modo più «chiaro e distinto», tutti i rapporti che esse hanno tra loro, egli sembra credere alla possibilità, presente o futura, di stabilire, per le singole categorie di fenomeni studiate dalle scienze che egli chiama teorematiche, una trattazione che permetta di esporne e «dimostrarne» il contenuto nel suddetto modo, cioè per via di semplici deduzioni basate su pochi principi altrettanto evidenti e «necessari» quali sono, o gli sembrano essere, quelli delle scienze matematiche.
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