Giustificare tale modo di procedere, come fa l’autore, dicendo che le questioni a cui vien data risposta dalle scienze applicate (cioè le questioni del seguente tipo: «Quali sono i mezzi atti a condurre al tale o al tal altro risultato?») sono diverse da quelle che formano oggetto delle scienze, sia storiche che teorematiche, è prendere per una differenza sostanziale e importante ciò che non è che una differenza nel modo di esprimersi.
Forse che, asserendo che un fine A è suscettibile di essere raggiunto col mezzo B, asseriamo qualche cosa di diverso da quanto asseriremmo dicendo che il fatto B è una delle circostanze da cui dipende il verificarsi del fatto A, o dicendo che il fatto A è un effetto, o uno degli effetti, del fatto B?
Se un dato fatto sia o no desiderabile, e se valga o no la pena di provocarne la realizzazione ricorrendo a un dato mezzo, sono questioni la cui trattazione è altrettanto estranea al compito degli scienziati propriamente detti (che, come tali, non devono aver di mira che la ricerca spassionata della verità) quanto alla competenza di coloro che professano l’una o l’altra di quelle che l’autore chiama «scienze applicate».
Ufficio di questi ultimi è infatti solo la determinazione dell’idoneità dei mezzi applicabili all’ottenimento d’un dato fine, e l’attribuire loro, a causa della loro competenza a giudicare di questa, qualsiasi speciale autorità sulle questioni che si riferiscono alla desiderabilità o alla valutazione comparativa dei fini che le loro «arti» servono a raggiungere, è qualche cosa di così poco giustificato come credere, per esempio, che un armaiuolo pel solo fatto di fabbricare delle rivoltelle, sia più competente di un’altra persona qualunque per giudicare in quali casi a un uomo onesto è lecito servirsene per la propria difesa.
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