Meno facile mi riuscirà giustificare e chiarire l’altra parte della definizione riportata dal Russell, quella cioè che qualifica la matematica come una scienza nella quale non si ha bisogno di sapere di che cosa si parla.
Occorre qui prendere le mosse da un altro campo di considerazioni. È nota la frase colla quale il Max Müller ha tentato precisare ciò che costituisce il tratto caratteristico di un vero linguaggio, in opposizione alle forme meno perfette di manifestazioni istintive di stati d’animo per mezzo dei suoni, quali esse si riscontrano anche negli stadi inferiori di sviluppo della vita animale. «Il linguaggio, egli dice, comincia dove le interiezioni finiscono».
Se noi ci domandiamo alla nostra volta in che cosa differiscano effettivamente le interiezioni da quelle che i grammatici chiamano le altre «parti del discorso», ci accorgiamo subito che esse sono le sole parole che, anche enunciate isolatamente, bastano per se stesse a esprimere qualche stato d’animo od opinione di chi le pronuncia, mentre le altre specie di vocaboli, per esempio i nomi o i verbi, non possono servire a tale scopo se non quando vengano raggruppate le une insieme alle altre in modo da dar luogo a un seguito di parole (frase, proposizione) avente qualche significato.
Quando emettiamo, per esempio, il suono «brr» o il suono «sst», noi non abbiamo bisogno di aggiungere altro per far capire che sentiamo del freddo o che desideriamo non si faccia rumore. Se invece pronunciamo, per esempio, il nome di un oggetto, senza accompagnarlo con qualche altra parola (o gesto) che indichi che cosa vogliamo dire di esso, o almeno spieghi se vogliamo asserire che lo vediamo o che lo desideriamo o che ne aspettiamo la comparsa ecc., noi non esprimiamo affatto nessuna nostra opinione, o disposizione d’animo, ma solo, tutt’al più, che stiamo pensando a quell’oggetto senza affatto dire nulla su ciò che ne pensiamo.
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Russell Max Müller
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