In questi casi non è sempre facile accorgersi di essere vittime di un pregiudizio affatto simile a quello che in altri tempi faceva considerare i ragionamenti in favore degli antipodi come tendenti a mettere in discussione la differenza tra la condizione di un uomo che sta in piedi e quella di un altro che si trova sospeso con la testa in basso. È inutile che Berkeley si sforzi di persuadere i suoi avversari che è la loro teoria e non la sua a lasciar buon gioco alle obbiezioni degli scettici contro la realtà del mondo esterno; è inutile che egli dichiari fino alla sazietà che si propone semplicemente di chiarire e determinare cosa si intende dire affermando che le cose materiali esistono (dal momento che tale termine in tale frase non può avere lo stesso senso che ha quando è usato per affermare la nostra esistenza personale o quella di altre coscienze analoghe alla nostra).
Si continuerà ugualmente a rimproverargli di aver voluto abolire la distinzione da tutti riconosciuta tra le cose «reali» e le illusioni della nostra fantasia, come si rimprovera a Hume di aver voluto abolire la distinzione tra le cause di un fenomeno e i suoi antecedenti, invece di attribuirgli il merito di aver approfondito l’analisi della nozione di causa e aver apportato un contributo importante allo studio del suo sviluppo.
È come se si accusassero Newton o gli accademici del Cimento di aver negato l’esistenza del diamante quando hanno dimostrato che non si trattava che di carbone cristallizzato.
Ma il caso più curioso si presenta quando gli stessi iniziatori di una nuova teoria filosofica, e non i loro avversari soltanto, si persuadono (o si esprimono come se fossero persuasi, ciò che è quasi lo stesso) che le loro analisi o le loro nuove definizioni sconvolgeranno dalle fondamenta tutte le idee correnti su quel dato argomento e quando si immaginano che, per mezzo di esse, convinceranno dei propri errori tutti i predecessori e lo stesso senso comune.
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