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      Dire infatti che le conclusioni di un ragionamento deduttivo si trovano già, sia pure implicitamente, contenute nelle premesse, differisce ben poco dal dire che le prime, non solo non affermano niente di più, ma, anzi, affermano qualcosa di meno, di quanto nelle premesse stesse si trovi già asserito.
      È noto il modo col quale il primo gran teorico della deduzione, Aristotele, ha tentato di parare a questa obbiezione. Egli ricorre ad un altro paragone, basato sul suo favorito contrasto tra forma e materia. Paragona, cioè, il lavoro di chi deduce a quello dello scultore che, pur levando da un masso alcune delle sue parti, ottiene qualche cosa che vale più del masso medesimo. Se, invece di una statua, egli avesse parlato d’uno strumento o d’un’arma, per esempio d’una lente o d’un pugnale, costruiti parimenti col levare, da una data porzione di materia prima, delle parti la cui presenza sarebbe d’ostacolo allo scopo al quale lo strumento o l’arma devono servire, il paragone sarebbe stato ancora meglio adatto a porre in luce l’ufficio della deduzione come attività organizzatrice delle cognizioni in vista del raggiungimento di fini determinati, non escluso s’intende quello di guidare alla ricerca dell’acquisto di nuove cognizioni.(86)
      Il contrasto fra il processo di deduzione e gli altri, puramente o predominantemente passivi, di osservazione, di contemplazione, di registrazione dei dati dell’esperienza o dell’intuizione, potrebbe infatti essere paragonato a quello che intercede tra le operazioni di censimento, dirette solo a riconoscere e descrivere lo stato della popolazione in un dato paese e tempo, e quelle di coscrizione, aventi invece in vista di scegliere e determinare quella parte di una data popolazione che è valida a portare le armi.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





Aristotele