A questo modo egli sarebbe riuscito a mettere facilmente la bambina in grado di dare, a chi le domandasse che cosa significhi «voce passiva», una risposta non peggiore di quella che avrebbe potuto essere data da qualunque filologo di professione.
Ma la bambina non si sarebbe con ciò avvicinata più di prima ad intendere, sia pure in modo vago, il senso della parola. Essa avrebbe solamente imparato a celare, a mascherare la sua ignoranza, ignoranza che del resto non avrebbe mancato di manifestarsi in seguito, di fronte a qualsiasi invito di applicare la sua presunta cognizione a qualche caso concreto.
È un luogo comune della didattica l’osservazione che, se il senso d’una parola è troppo recondito per essere spiegato a un bambino col ricorso ad esempi e casi particolari, meno ancora si potrà farglielo intendere per mezzo d’una definizione, nella quale devono inevitabilmente figurare delle parole ancora più astratte e difficili a comprendere di quella che con esse si vuol definire. Ammesso tuttavia che anche questa norma subisca delle eccezioni, e che dire «più astratto» non voglia sempre dire «più difficile a comprendere», una cosa si può affermare con sicurezza, ed è questa: che il peggior modo di assicurarsi del grado di conoscenza che un individuo, e specialmente un bambino, ha di qualche cosa, è quello di domandargli che cosa essa è.
La frequenza colla quale è fatto ricorso a domande di questo tipo, nei vari stadi d’insegnamento, e il posto che ad esse è fatto nei procedimenti d’esame o di valutazione del profitto nelle nostre scuole, mi sembra siano da porre tra i sintomi più caratteristici della condizione arretrata della nostra tecnica didattica rispetto al presente stato della psicologia delle operazioni intellettuali.
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