Il credere che una cosa che vediamo estesa sia «realmente» estesa è, osservavano essi, così poco ragionevole come il credere che una cosa che vediamo rossa o verde sia veramente tale «per se stessa» e indipendentemente dalla condizione dei nostri organi visivi.
Per trovare un nuovo collocamento alla distinzione che così veniva a rimanere priva d’impiego, due vie erano aperte. Si poteva, conformandosi all’uso volgare delle parole, adibirla all’umile ufficio di distinguere le nostre impressioni allo stato di veglia da quelle del sogno, le impressioni dell’uomo desto, di sensi sani, da quelle dell’allucinato, cercando naturalmente, come appunto ha tentato il Leibniz, di precisare quali siano i caratteri pei quali le prime si distinguono propriamente dalle seconde (coerenza, comunanza a più persone, prevedibilità, ecc.). Sfortunatamente altre preoccupazioni (soprattutto sentimentali) spinsero la speculazione filosofica su una via affatto opposta. Dall’ammissione che tutte le proprietà conosciute, o conoscibili, dei corpi fossero ugualmente «apparenti», si arrivò senz’altro alla conclusione che il domandarsi che cosa essi sono «realmente» fosse sollevare una questione oltrepassante i limiti di competenza dalla mente umana, fosse toccare a uno degli «enigmi» insolubili dell’universo. Con quest’ultima evoluzione la parola «fenomeno» finì per designare qualunque cosa di cui si possa parlare sapendo di che cosa si parla, e il suo contrapposto (noumeno, cosa in sé) per non significare più altro che il nostro desiderio di avere a disposizione una parola che non significhi nulla.
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Leibniz
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