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      Mentre per le prime ha vigore quello che i logici chiamano il principio di contraddizione - in quanto, se due persone sono di diverso parere e prevedono, l’una che avvenga, e l’altra che non avvenga, uno stesso fatto, esse non possono aver ragione ambedue -, nel secondo caso invece lo stesso non si può dire, e anzi non si può neppure affatto parlare di torto e di ragione se non per metafora, come quando si dice che si ha torto di desiderare una data cosa, volendo solo dire che si cesserebbe dal desiderarla se si conoscesse meglio qualche sua qualità o qualche suo effetto.
     
      Esempi caratteristici della tendenza che hanno le affermazioni del secondo tipo ad assumere l’apparenza di quelle del primo, ci sono offerti dalle frasi in cui figurano le parole: «funzione» «dovere» «missione» ecc., come quando si dice che è funzione dello stato far questo o quest’altro, oppure che è dovere della tale persona di agire in tale o in tal altro modo, ecc. Il fatto che esse compaiono sotto forma grammaticalmente indicativa, invece che imperativa, non è l’ultima delle cause che favoriscono la tendenza a scambiarle per delle affermazioni implicanti qualche cosa di più che un desiderio o un’aspirazione nostra o altrui.
      È un caso analogo a quello che si riscontra nelle frasi in cui si adoperano le forme del presente per designare la aspettazione di un fatto futuro, dicendo ad esempio che siamo mortali, per dire che moriremo, o che un oggetto è fragile per dire che prevediamo che si romperebbe se percosso, ecc.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483