Questa analogia serve benissimo anche per porre in luce un altro dei caratteri che contraddistinguono le affermazioni propriamente dette da quelle che si potrebbero chiamare manifestazioni di volontà o di desideri. Mentre infatti le prime indicano delle vie e dei mezzi a cui è possibile ricorrere per realizzare qualche fatto che non esiste ancora, le seconde si limitano a descrivere un nostro stato di coscienza o fatto, che riconosciamo come presente. Le prime si riferiscono non a ciò che vogliamo ma a ciò che potremmo fare se volessimo, e interessano quindi, non meno di noi, anche chi abbia desideri affatto opposti ai nostri, in quanto gli indicano da quali azioni dovrebbe astenersi per evitare di produrre quello che non desidera.
Che a questo stato di «neutralità» tendano sempre più ad avvicinarsi quelli che pomposamente si chiamano i «responsi» della scienza, non è che un effetto tra i tanti che derivano dalla divisione del lavoro nel campo intellettuale, e dalla convenienza crescente di separare la ricerca teorica dall’applicazione e utilizzazione dei risultati ai quali essa conduce.
L’idea che agli scienziati in quanto tali, e perché tali, competa qualche speciale autorità nel decidere del valore dei fini che la loro scienza serve a render raggiungibili, non rappresenta in fondo che una sopravvivenza di un sentimento che fu utile in altri tempi, quando la separazione tra l’ufficio dello scienziato e quelli dell’uomo di stato, dell’educatore, del moralista, del sacerdote, del poeta, ecc., non era ancora effettuata come al presente.
| |
|