La tesi del Moore coincide sostanzialmente, come si vede, con quella che si trova formulata dallo Stuart Mill (Utilitarianism) colla seguente frase che il Moore appunto riporta: «Le questioni di fini non possono essere assoggettate ad alcuna prova diretta (are not amenable to direct proof). L’unico modo di provare la bontà o desiderabilità di qualche cosa consiste nel mostrare che essa serve di mezzo a qualche altra cosa che si ammetta essere buona o desiderabile senza bisogno di prova».
Non sarebbe senza interesse un raffronto tra queste espressioni e quel passo della Metafisica di Aristotele (lib. I minore, cap. II) nel quale si afferma l’impossibilità di risalire indefinitamente nella catena di quelle che si chiamano le «cause finali», e la irriducibilità di queste agli altri tre tipi di cause da lui distinti.
Tra le opere più recenti nelle quali i vantaggi dell’impiego della distinzione sopraindicata alle trattazioni etiche si presentano in modo particolarmente chiaro, sono da porre, oltre il classico lavoro del Sidgwick (Methods of Ethics), al quale il Moore si riattacca direttamente, anche quelli del Brentano (Psychologie vom empirischen Standpunkt. Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis). Di quest’ultimo il Moore dichiara aver preso conoscenza solo quando le linee generali del suo lavoro erano già stabilite.
La stessa distinzione si trova anche frequentemente applicata dagli economisti alla determinazione della propria sfera di competenza di fronte a quella del legislatore o del moralista.
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