Con esso si verrebbe, infatti, non solo a fare astrazione precisamente da quelle qualità di cui è speciale ufficio della morale il tener conto, ma anche a pregiudicarne, come si fa appunto dai seguaci delle varie scuole edoniste, la questione di fondamentale importanza: se le cose che noi qualifichiamo come buone o desiderabili abbiano effettivamente qualche altra proprietà in comune oltre quelle espresse dalle dette parole.
A tale questione il Moore crede si deva rispondere in senso negativo: «things which are good do not owe their goodness to their common possession of any other properties » (p. 38 ).
La posizione che il Moore prende a questo riguardo, di fronte a quelli che assegnano a scopo dell’etica la determinazione di un unico fine supremo, di una formula unica, di un criterio «oggettivo» per distinguere ciò che è bene desiderabile da ciò che non lo è, ha qualche analogia con quella che è assunta anche da H. Brewster nei suoi scritti L’âme païenne. - The theory of anarchy and of law (London, 1887).
Ambedue si accordano nel riconoscere quanto poco sia ragionevole il credere che gli stessi criteri di economia e le stesse esigenze di unificazione, di semplificazione, di riduzione al minimo numero, cui conviene si uniformi ogni ricerca riferentesi ai mezzi e agli strumenti di azione, quindi in particolare ogni ricerca scientifica, conservino la stessa ragion d’essere anche nel campo dei «fini», come se a quella che si chiama legge del «minimo mezzo» dovesse corrispondere una legge del «minimo fine», e come se la tendenza stessa a ridurre al minimo gli sforzi per l’ottenimento dei fini che ci proponiamo, o ci possiamo proporre, non trovasse appunto la sua principale giustificazione in ciò: che essa favorisce e rende compatibile il simultaneo e sempre più completo raggiungimento di un numero crescente di essi.
| |
Moore Moore Brewster London
|