Se i rapporti tra i postulati e le proposizioni da essi dipendenti potevano prima essere paragonati a quelli che, in uno stato a regime autocratico o aristocratico, sussistono tra il monarca, o la classe privilegiata, e le rimanenti parti della società, l’opera dei logici matematici è stata in qualche modo simile a quella degli introduttori di un regime costituzionale, o democratico, nel quale la scelta o l’elezione dei capi dipende, almeno idealmente, dalla loro riconosciuta capacità ad esercitare temporaneamente determinate funzioni nell’interesse del pubblico.
I postulati hanno dovuto, cioè, rinunziare a quella specie di «diritto divino» di cui sembrava investirli la loro pretesa evidenza, e rassegnarsi a diventare, invece che gli arbitri, i «servi servorum» - i semplici «impiegati» - delle grandi «associazioni» di proposizioni che costituiscono i vari rami della matematica.
A questa stessa tendenza si riattaccano anche le esigenze relative al loro massimo «sfruttamento», alla riduzione loro al minimo numero, alla determinazione esatta delle loro attribuzioni e della loro sfera di validità, ecc.
Una seconda conformità, non meno importante, tra pragmatisti e logici matematici sta nella loro comune ripugnanza per ciò che è vago, impreciso, generico, e nella loro preoccupazione di ridurre o decomporre ogni asserzione nei suoi termini più semplici: quelli che si riferiscono direttamente a dei fatti, o a delle connessioni tra fatti.
È per questa via che tanto gli uni quanto gli altri sono giunti, ognuno per proprio conto e a proprio modo, a riconoscere l’insussistenza di una gran parte delle distinzioni che, dalla logica scolastica, sono state trasmesse alle moderne «teorie della conoscenza», e ad assoggettarne altre ad analisi critiche dalle quali esse sono uscite in certo modo trasfigurate, restaurate, arricchite di nuovi e più importanti significati.
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