Un carattere comune a questa e all’altra precedentemente accennata, tra le innovazioni introdotte dai logici matematici nella teoria tradizionale delle definizioni, consiste nella loro tendenza a porre in luce i vari ordini di circostanze da cui può dipendere il fatto che di una data parola, presa a sé, non si possa dare una definizione nel senso ordinario, cioè non si possa enunciare una frase indicante direttamente il carattere o i caratteri, propri agli oggetti ai quali la parola in questione si applica.
Non solo la logica matematica ha condotto a riconoscere che parlare della «definibilità» o «indefinibilità» d’una data parola, o d’un dato concetto, è dir cosa priva di senso fintantochè non si indichi precisamente di quali altre parole o concetti si conceda di far uso nella definizione cercata, ma essa ha anche fornito una spiegazione del fatto che molte tra le parole più importanti della scienza e della filosofia si trovano appunto tra quelle di cui è irragionevole domandare o ricercare una definizione, nel senso scolastico, e ha contribuito così nel modo più efficace a combattere, a fianco dei pragmatisti, il pregiudizio «agnostico» che attribuisce l’impossibilità di risolvere tali questioni a una pretesa incapacità della mente umana a penetrare l’«essenza» delle cose.
Le così dette «definizioni per postulati», quelle, cioè, che consistono nel determinare il significato di un segno d’operazione, o di relazione, coll’enunciare un certo numero di norme che, per ipotesi, ne devono regolare l’impiego, hanno invece rapporto col pragmatismo in quanto giovano a far meglio riconoscere nei postulati quel carattere di arbitrarietà che spetta loro, non meno che alle definizioni, in qualità di proposizioni aventi l’ufficio di determinare in vista di dati scopi o di date applicazioni, i vari campi di ricerca, in qualità cioè di proposizioni la cui sola giustificazione consiste nell’importanza e nell’utilità delle conseguenze che da esse sarà possibile dedurre.
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