In due pubblicazioni antecedenti(98) ho già avuto occasione di occuparmi, da questo punto di vista, dello sviluppo storico di due distinzioni d’importanza fondamentale per gli scopi della logica e per quelli della psicologia delle operazioni intellettuali.
La prima è la distinzione espressa nel linguaggio filosofico moderno coll’opporre le «proposizioni sintetiche» alle «proposizioni analitiche».
L’altra, strettamente connessa del resto alla precedente, è quella che sussiste tra l’insieme delle «note» che costituiscono il significato di un termine generale, e l’insieme degli «oggetti» che dal termine stesso sono indicati.
La prima distinzione - quella cioè tra le proposizioni aventi lo scopo di determinare, precisare, chiarire, ricordare il senso che vogliamo attribuire a una data parola, e le proposizioni invece nelle quali (mediante parole delle quali si suppone già noto e ammesso il significato dalle persone a cui si parla) si asserisce qualche opinione, ad esempio che qualche fatto è avvenuto o si verificherà, oppure che tutti gli oggetti presentanti certi dati caratteri (e indicati perciò con un dato nome) ne presentano anche altri, ecc. - era di troppo grande importanza, non solo nelle dispute filosofiche ma anche nelle controversie civili e giudiziarie, perché i dialettici e sofisti greci non dovessero presto sentire il bisogno di avere a disposizione una speciale nomenclatura tecnica per caratterizzarla in modo preciso.
La tattica, le norme, gli artifici da adottare per la difesa o la confutazione di una data tesi sono infatti così dipendenti dal suo appartenere all’una o all’altra delle suddette due specie, che non è possibile neppure concepire un’esposizione o classificazione sistematica dei vari tipi d’argomentazione da porre in opera nelle dispute, nella quale non si tenga conto di una tale distinzione e nella quale anzi essa non figuri in prima linea.
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