È poco incoraggiante per chi si preoccupa di migliorare il linguaggio tecnico della filosofia il considerare quanto rapidamente i termini sopraddetti, nonostante l’importanza pratica delle distinzioni da essi indicate, hanno cessato di poter servire allo scopo cui sono applicati nell’esposizione originaria di Aristotele. Tra le cause che maggiormente contribuirono a togliere precisione e determinazione al loro significato è certo da porre la diffusione e la popolarità che acquistò e mantenne nella tradizione scolastica l’operetta di Porfirio nota sotto il nome di Isagoge.
In questo scritto, dedicato, com’è noto, ad enunciare ordinatamente le conformità e differenze tra quelle che sono state chiamate le cinque voci, cioè: ghenos, eidos, diaforà, ìdion, sumbebekos, non si riscontra più alcuna traccia di quello schema simmetrico, che nell’esposizione di Aristotele tanto aiutava il chiaro riconoscimento dello scopo e della portata delle distinzioni da tali termini espresse.
L’omissione del termine òros e l’introduzione al suo posto degli altri due eidos, diaforà, -cambiamenti dovuti probabilmente a un’erronea interpretazione della norma enunciata da Aristotele dicendo che la definizione si compone del «genere» e delle «differenze specifiche» -, il rilievo dato a considerazioni affatto fuori di proposito sulle relazioni tra i «generi» e le «specie» e tra questi e gli «individui», la separazione della teoria dalle sue applicazioni pratiche, alle quali invece nella Topica essa si trova immediatamente connessa, tutto ciò contribuisce nell’opera di Porfirio a mascherare e a far perdere di vista quella parte appunto del significato dei termini sopra indicati dalla quale dipende la loro importanza come termini tecnici.
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