Se a ciò si aggiunge il fatto che l’opera di Porfirio, riguardata come un riassunto fedele e quasi ufficiale della dottrina aristotelica, servì da principale veicolo per la penetrazione di questa nelle scuole d’occidente - e ciò mentre ancora molti degli scritti logici di Aristotele e in particolare la Topica non vi avevano trovato accesso -, si comprenderà facilmente come sia avvenuto che non uno dei suddetti termini (o dei loro corrispondenti latini) abbia mantenuto nel linguaggio filosofico moderno il significato ad esso attribuito da Aristotele.
Così la parola «genere», insieme alle sue corrispondenti in ogni lingua colta moderna, e insieme del resto anche alla sua correlativa «specie», è ora applicata indifferentemente in ogni caso in cui si tratti di indicare la subordinazione di una classe ad un’altra; essa non serve più affatto a distinguere se tale subordinazione dipenda dal fatto che i caratteri che definiscono la classe superiore si trovino fra quelli che definiscono l’altra, oppure invece dal fatto che i caratteri che definiscono la prima classe, pur essendo affatto distinti da quelli che definiscono la seconda, si riscontrino costantemente anche negli oggetti che appartengono a quest’ultima.
Anche la distinzione tra «proprio» (idion) e «accidente» (sumbebekòs) ha cessato di poter essere espressa in linguaggio moderno colle parole corrispondenti a quelle introdotte da Aristotele. Per «proprietà» di un dato gruppo di oggetti s’intende ora indifferentemente qualsiasi qualità che essi tutti possiedano, senza alcun riguardo al fatto che tale proprietà sia o no posseduta anche da altri oggetti non appartenenti al gruppo in questione.
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