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      La frase più frequentemente usata nel linguaggio ordinario per richiedere il significato d’una data parola, la domanda cioè: Che cosa è ...? seguita dalla parola in questione, si presentava a Platone come troppo ambigua, in quanto lascia credere che si possa rispondere adducendo appunto, in luogo della definizione, degli esempi o dei casi particolari ai quali essa si applica. Un mezzo adoperato da Platone per renderla più precisa consiste, come è noto, nel far precedere in essa, al nome di cui si cerca il significato, la particella autò (o anche solo to) alla quale è qui da attribuire una forza analoga a quella che hanno, per esempio, in italiano gli avverbi veramente, propriamente, ecc., come nella frase: «Che cosa significa propriamente la tal parola?» oppure: «Che cosa è veramente la tal cosa?».
      Un altro modo, adoperato pure da Platone per esprimere la stessa domanda, è quello che consiste nel domandare per qual motivo, o in vista di che cosa, i tali o tali altri oggetti sono chiamati con un dato nome.
      Un terzo gruppo di espressioni, infine, di cui Platone si serve allo stesso scopo, è costituito dalle frasi nelle quali si domanda in che cosa si somigliano o che cosa hanno di comune gli oggetti ai quali un dato nome si applica, e in che cosa essi differiscono da quelli ai quali esso non si applica.
      Che anche colle espressioni di quest’ultima specie Platone non intenda domandare niente di più o di diverso di quanto egli domanda con quelle dei due precedenti tipi, risulta ben chiaro dalle risposte di cui egli anche per queste ultime domande si contenta, risposte che consistono sempre nell’enunciare una definizione del termine in questione.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





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