È da notare tuttavia come queste ultime frasi suggeriscano nello stesso tempo anche un’altra immagine - implicata del resto anche nelle locuzioni in cui l’eidos d’una classe è presentato come qualche cosa che si trova in ciascuno degli oggetti che la compongono -, l’immagine cioè delle eide come ingredienti od elementi aventi parte alla composizione di ciascuno degli oggetti che ad esse «partecipano».
Un’altra importante metafora, adoperata pure da Platone per indicare la relazione tra l’eidos d’una data classe e gli oggetti che vi appartengono, è quella che consiste nel dire che esso è un modello (paràdeighea), di cui questi sono in certo modo delle copie o delle imitazioni.
È noto il passo di Aristotele (Metaphys., I, 7) nel quale l’una e l’altra di queste metafore è qualificata come «poetica» e «vuota di senso».
Mi sono fermato alquanto sulle precedenti considerazioni perché esse mi sembrano fornire la base per quella che io credo la più corretta interpretazione del significato che Platone attribuisce alle sue frasi: «che le eide sono qualche cosa di più reale e veramente esistente che non gli oggetti materiali», «che esse sono eterne, esenti dai mutamenti e dalle alterazioni a cui vanno esposti gli oggetti che ad esse partecipano», «che questi ultimi sono incapaci di rassomigliare perfettamente ad esse», ecc.
L’analogia che queste frasi presentano con quelle adoperate dai filosofi moderni quando parlano delle «leggi naturali», qualificandole come esprimenti ciò che vi è d’invariabile e di permanente nella varietà dei fenomeni in cui esse si «manifestano», o quando onorano col nome di scienze «pure» quelle nelle quali le conseguenze di date leggi o ipotesi vengono studiate indipendentemente da ogni diretto riferimento ai fatti in cui esse trovano applicazione, non è un’analogia puramente casuale o formale: essa è assai più profonda e più intima di quanto possa lasciar credere l’interpretazione corrente della teoria platonica delle «idee».
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