Quando si spogli la teoria platonica dalle implicazioni etiche ed estetiche che ne costituiscono sotto un certo aspetto un carattere accessorio e accidentale, essa si manifesta come una energica affermazione, da parte dello scienziato e del filosofo, del diritto a foggiare o costruire un mondo più regolare, più semplice, più perfetto, di quello che i soli dati sensibili, e le sole induzioni basate su questi, porterebbero ad ammettere come esistente. Essa si manifesta cioè come un’affermazione della legittimità di quel processo di ricerca, che, prendendo come punto di partenza concetti o ipotesi idealizzatrici e semplificatrici, non aventi alcun esatto riscontro in quella che si chiama la «realtà delle cose», arriva, per mezzo di deduzioni e per mezzo di quelli che sono stati recentemente chiamati (Mach) «esperimenti di pensiero», ad analizzare, a comprendere, a dominare questa, e a scoprire in essa, e al di sotto di essa, indipendentemente dal ricorso diretto all’esperienza, regolarità, leggi, norme che l’osservazione diretta e passiva sarebbe stata per sempre incapace a rivelare.
Così intesa, la teoria delle idee si presenta come assai più intimamente connessa di quanto si ammetta ordinariamente con l’altra delle grandi innovazioni di metodo attribuita a Platone: coll’impiego cioè del ragionamento deduttivo alla scelta e al rigetto delle varie alternative ipotetiche che, su un dato soggetto, si presentano come possibili.
Un esempio dell’efficacia dell’uno e insieme dell’altro di questi due processi si presentava a Platone nell’astronomia, intesa questa, come l’intesero sempre i greci, come la scienza diretta a spiegare e ridurre in ordine (sugkosmein per usare la parola adoperata da Aristotele, quasi a scherno, contro i pitagorici) le irregolarità e anomalie dei movimenti apparenti (fainòmena) degli astri sulla sfera celeste, facendole risultare come conseguenze di semplici ipotesi sui loro movimenti effettivi nello spazio.
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