). Da ciò si conclude, non certo che l’analisi dell’Enriques manchi di valore o di esattezza, ma piuttosto che essa non è solamente un’analisi della nostra credenza a qualche cosa di «reale», ma anche un’analisi delle nostre credenze di qualunque specie, in quanto esse abbiano «significato», e in quanto siano «realmente delle credenze e non delle vuote formule verbali».
Non so fino a che punto l’Enriques accetterebbe la tesi - caratteristica dei pragmatisti - che il significato di qualsiasi affermazione consiste e può consistere soltanto nelle aspettative che avremmo (o in quelle che cesseremmo di avere) se l’accettassimo per vera. Il punto della sua esposizione nel quale egli viene a toccare più da vicino questo soggetto è quello in cui egli discute l’opinione, espressa dal Poincaré (molto posteriormente al Peirce), che due diverse teorie devono essere riguardate come equivalenti quando non vi sia differenza assegnabile tra i fatti che l’una e l’altra porta a far prevedere. Per l’Enriques questa specie di «equivalenza» delle due teorie non è incompatibile col fatto che esse possano avere un diverso valore suggestivo od «euristico», che esse possano cioè stimolare in grado diverso alla ricerca e all’acquisto di nuove cognizioni.
I pragmatisti tuttavia potrebbero alla loro volta ribattere che questa diversa potenza stimolatrice e suggestiva delle teorie non può a meno che connettersi, anch’essa, a qualche diversità nelle previsioni che l’una o l’altra tra esse tende a suggerire con maggiore o minor forza, sia pure solo come probabili, come possibili, come immaginabili.
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