Secondo le moderne teorie trasformiste, organi omologhi sarebbero quelli che si possono considerare come derivati da un medesimo organo primitivo, ad esempio l’arto superiore dell’uomo, l’ala di un pollo, o le pinne pettorali di un pesce. Si sbaglierebbe di grosso chi avesse a credere che con questa definizione si sia trovato un mezzo più comodo di stabilire le omologie; staremmo freschi se armati di tale definizione volessimo stabilirne una sola. La difficoltà di apprezzare le omologie è rimasta immutata: come per gli antichi, cosi per i moderni il criterio è quello dell’esame più esauriente possibile degli organi da paragonare. Non solo occorre esaminarne la forma esterna e la posizione relativa nel corpo, ma anche la interna struttura e i rapporti con tutti gli altri sistemi di organi, con i vasi e con lo scheletro; ma anche il modo di sviluppo: se si abbozzano in questo o in quel tempo, in questa o quella posizione relativa, se si originano da questo o da quel foglietto germinativo, ecc.» (pp. 21-3).
Col qualificare il compito dell’anatomia comparata come esclusivamente descrittivo, comparativo, classificativo, l’autore è tuttavia lungi dal negare che i biologi si devano occupare della ricerca delle cause o di quelle che egli chiama le «spiegazioni causali» dei caratteri e delle trasformazioni degli esseri organizzati. Ciò che egli afferma è soltanto che questo compito è da riservare a quei nuovi rami di ricerca biologica (come ad esempio la meccanica dello sviluppo), che sono caratterizzati dall’impiego che vi si fa dell’esperimento, inteso questo nel senso più ordinario, cioè come consistente nella produzione artificiale, e ripetibile a volontà, dei fatti o processi studiati.
| |
|