Nella dottrina del Will to believe si ha, a mio parere, il torto di confondere troppo spesso il potere della volontà sui nostri pensieri (o sulle nostre rappresentazioni) col potere della volontà sulle nostre credenze e le nostre convinzioni, e di non vedere che mentre il primo di questi due poteri è diretto e immediato (almeno tanto diretto e immediato quanto quello della volontà sui nostri muscoli) il secondo invece non è che mediato e indiretto, e non agisce, almeno nei casi più ordinari, se non attraverso al primo.
Una parte almeno di questa confusione è certamente da imputare all’infelicissimo uso della parola «idea», e delle altre equivalenti, per indicare, nello stesso tempo, i nostri pensieri e le nostre credenze o opinioni. Di questa imperfezione di linguaggio gli psicologi non sono i soli a soffrire. Anche gli psichiatri, per esempio, parlano continuamente di «idee fisse», senza neppure sentire il bisogno di una nomenclatura che serva a distinguere i casi in cui la «fissità» si riferisce alle «idee» propriamente dette (cioè alle rappresentazioni e immagini mentali), dagli altri casi in cui invece ciò che è «fisso» non è un semplice pensiero ma una credenza o un’aspettazione. L’influenza dei nostri desideri, dei nostri timori, delle nostre passioni insomma, sul corso dei nostri pensieri, può, qualunque sia la sua intensità, trovarsi accompagnata dalla più perfetta inibizione o soppressione di qualsiasi intervento, diretto o indiretto, della volontà sulle nostre opinioni.
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Will
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