Molti filosofi, e in particolar modo i «monisti», riescono in tal modo, a furia di generalizzazioni e di unificazioni, a non riconoscere neppur più - o piuttosto a illudersi di non riconoscere - perfino le distinzioni più elementari che, in qualunque linguaggio umano, anche il più primitivo, si trovano più o meno perfettamente espresse, e che sono indispensabili, non solo come guida della condotta, ma anche come mezzi per descrivere, per caratterizzare, per capire i fatti in mezzo a cui tutti viviamo. E se anche credono conveniente di conservare e di adoperare i nomi dai quali tali distinzioni sono designate, essi non fanno ciò che dopo averli vuotati di ogni significato e averli resi inservibili per gli scopi pei quali essi furono introdotti. È avvenuto così, per esempio, della distinzione tra azioni volontarie e involontarie, studiata appunto sotto questo aspetto da Mario Calderoni nell’articolo da lui pubblicato in questa stessa rivista su tale argomento.(120)
Ciò che dà significato e valore a quel nuovo indirizzo di pensiero filosofico, a cui è stato dato il nome di «pragmatismo», è appunto il suo presentarsi come un movimento di reazione contro la sopraindicata tendenza a generalizzare, e ad effettuare sintesi ed unificazioni, in modo quasi automatico e senza domandarsi se i concetti ai quali in tal modo si arriva possano ancora servire a dir qualche cosa che valga la pena di esser detta.
La tattica adottata dai pragmatisti in questa loro guerra contro l’abuso delle astrazioni e delle unificazioni consiste, come è noto, nel proporre che, anche nelle questioni filosofiche, come si fa sempre in quelle scientifiche, si esiga, da chiunque avanzi una tesi, che egli sia in grado di indicare quali siano i fatti che, nel caso che essa fosse vera, dovrebbero, secondo lui, succedere (o esser successi), e in che cosa essi differiscano dagli altri fatti che, secondo lui, dovrebbero succedere (o essere successi) nel caso che la tesi non fosse vera.
| |
Mario Calderoni
|