Per indicare il sussistere, tra gli oggetti così rappresentati, di quei rapporti che dai linguaggi parlati sono espressi mediante frasi o proposizioni, le scritture di questa seconda specie dovettero ricorrere fin dal principio ad espedienti (alterazioni nella forma, nell’ordine dei segni, ecc.) aventi un ufficio affatto analogo a quello che, nelle lingue parlate, spetta alle flessioni, alle preposizioni, ai segni di predicazione, d’interrogazione, alle congiunzioni, ecc.
L’esame di tali espedienti presenta particolare interesse per quei sistemi di notazioni ideografiche che, come per esempio quelli dell’algebra o della musica, venendo impiegati contemporaneamente alla scrittura ordinaria, subiscono in certo modo la concorrenza di questa, concorrenza nella quale avrebbero finito per soccombere se qualche speciale carattere non li rendesse preferibili per i particolari uffici ai quali sono applicati.
Dire che, nel caso che ora ci interessa, quello dell’algebra, la ragione di tale preferibilità stia nell’attitudine sua a esprimere con maggior brevità e precisione le proposizioni relative ai numeri e alle quantità, non è ancora risolvere la questione. Ciò che importa infatti è appunto di determinare da quali circostanze le suddette proprietà del linguaggio algebrico dipendano: fino a che punto cioè esse si riconnettano all’impiego di sigle ideografiche al posto delle parole, e per quanta parte esse invece dipendano dal ricorso, fatto dall’algebra, a mezzi, diversi da quelli di cui dispone il linguaggio parlato, per dare senso alle differenti combinazioni dei segni che essa adopera.
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