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      Nei casi della prima specie non si può neppur dire di avere a che fare con un particolare «linguaggio»; si tratta piuttosto di particolari «nomenclature». I segni e le loro combinazioni non servono infatti ivi ad altro che a costruire dei «nomi» indicanti oggetti composti (per esempio, nel caso della musica, un accordo, o una melodia) per mezzo dei nomi (note) degli elementi che li compongono.
      Nei casi invece della seconda specie, per esempio in algebra, i nomi che in questo modo si vengono a costruire entrano in ulteriori combinazioni con nuovi segni, corrispondenti a quelli che i grammatici chiamano i verbi, dando luogo a formule, o ad enunciati in cui si asserisce qualche cosa che può essere vera o falsa, o si domanda qualche cosa relativamente agli oggetti in questione.
      Questa importante classe di segni è rappresentata, in algebra, dal segno. di uguaglianza (=), e dai due segni di disuguaglianza (>, <).
     
      Tra la semplice «lettura» di una formula algebrica, e la sua «traduzione» in parole e frasi del linguaggio ordinario, sussiste una differenza della quale - anche quando non è in grado di definirla e caratterizzarla in modo preciso - è perfettamente conscio chiunque abbia coll’algebra una sufficiente famigliarità.
      È questa differenza che si ha in vista quando si parla dell’algebra come di uno speciale «linguaggio», ed è essa che ci autorizza a riguardare l’algebra come qualche cosa di più che un semplice artificio grafico, o stenografico, introdotto per rappresentare in forma più concisa, o più comoda, di quanto si possa fare con la scrittura ordinaria, le proposizioni relative ai numeri e alle loro proprietà.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483