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      Se noi ci domandiamo, alla nostra volta, in che cosa differiscano effettivamente le interiezioni da quelle che i grammatici chiamano le altre «parti del discorso», ci accorgiamo subito che esse sono le sole parole che, anche enunciate isolatamente, bastano, per se stesse, a esprimere qualche stato d’animo, o qualche opinione, di chi le pronuncia, mentre le altre specie di vocaboli, come i nomi, gli aggettivi, i verbi, ecc., non possono, d’ordinario, servire a tale scopo se non comparendo raggruppate le une insieme alle altre, in modo da dar luogo a una frase o a una proposizione.
      Quando emettiamo, per esempio, il suono brr, o il suono sst, noi non abbiamo bisogno di aggiungere altre parole per fare intendere al nostro interlocutore che sentiamo del freddo, o che desideriamo che egli non faccia rumore. Se invece pronunciamo, per esempio, il nome di un oggetto senza accompagnarlo con qualche parola (o gesto), che indichi cosa vogliamo dire di esso - che dichiari, cioè, se vogliamo dire che lo vediamo, o che lo desideriamo, o che lo temiamo, o che ne aspettiamo la comparsa, ecc. -, noi non esprimiamo affatto alcuna nostra opinione, o disposizione d’animo, ma tutt’al più segnaliamo che stiamo pensando a quell’oggetto, senza dire nulla di ciò che ne pensiamo.
      Ne segue che le interiezioni possono qualificarsi come quelle, tra le parole del nostro linguaggio, che hanno più «significato» di tutte le altre, e, in certo modo, come le sole che ne abbiano, quando sono prese a sé, mentre le altre sono soltanto capaci di acquistarne, nel caso che siano assunte a far parte di una frase che ne abbia.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483