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      Qui è tuttavia da osservare che la suddetta distinzione, - in quanto è stabilita dai grammatici in base al criterio puramente formale consistente in ciò che il verbo esiga, o non esiga, ciò che essi chiamano un «complemento diretto» -, non coincide esattamente con quella che, per il nostro scopo, sarebbe opportuno fosse posta in rilievo.
      A nessuno certo può venire in mente di dar torto ai grammatici quando essi si preoccupano di distinguere i casi nei quali l’indicazione dell’oggetto, a cui si riferisce l’azione espressa da un verbo, avviene per mezzo della semplice aggiunta del nome di tale oggetto - come quando si dice per esempio: «desidero la tal cosa» - dai casi nei quali invece è necessario che, tra il verbo e il nome, sia interposta una preposizione - come quando si dice per esempio: «aspiro alla tal cosa».
      Ma la frequenza stessa con cui si presenta il caso di verbi che, pure avendo un medesimo significato, appartengono in una lingua alla prima categoria, e in un’altra alla seconda, prova già abbastanza il carattere per così dire accidentale della distinzione che così si viene a stabilire.
     
      La questione se sia possibile sostituirne ad essa un’altra, basata su un criterio più stabile, - raggruppando, per esempio, in una sola classe coi verbi «transitivi» anche tutti quegli altri il cui significato richieda, sia pure mediante l’impiego di una preposizione, l’indicazione di un oggetto al quale si riferisca l’azione da essi espressa -, acquista tanto maggiore interesse pel fatto che, anche per i nomi e per gli aggettivi, vi è luogo a stabilire una distinzione analoga.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483