Servono a tale scopo, nel linguaggio ordinario, le preposizioni (o le flessioni) corrispondenti ai diversi «casi» dei nomi.
Finché il verbo, pur essendo a più «valenze», è tale che, come avviene per esempio in quelli sopra citati, i diversi nomi richiesti per completarne il significato appartengono a categorie così distinte da rendere impossibile qualsiasi equivoco o confusione tra loro - quando, per esempio, come nel caso del verbo «dare», l’un complemento deve indicare una persona, e l’altro un oggetto -, può parere sempre superfluo l’impiego di qualsiasi preposizione. Si tende infatti ad abolire queste in tutti quei casi in cui si abbia particolare interesse a fare economia di parole, come per esempio nei telegrammi, negli indirizzi, negli avvisi economici delle quarte pagine dei giornali. Se si telegrafa, per esempio «spedite plico segretario» nessun dubbio può nascere che il plico è la cosa spedita e il segretario la persona «a cui» la spedizione è fatta, e non viceversa.
Ma quando, invece, i diversi complementi di un verbo appartengono tutti a una medesima classe - quando sono, per esempio, tutti nomi di persone, come per esempio nelle frasi: «dico male di Tizio a Caio», «dico male a Caio di Tizio» -, l’omettere le preposizioni equivarrebbe a togliere. ogni mezzo a chi ascolta di distinguere le diverse relazioni in cui i diversi nomi stanno col verbo, e a esporsi quindi a esser capiti a rovescio.
Se, tenendo presenti le considerazioni svolte sopra, ci proponiamo di determinare quali siano gli speciali caratteri grammaticali e sintattici per i quali il linguaggio algebrico si distingue da quello ordinario, un primo fatto notevole che ci si presenta è l’assenza, nel linguaggio algebrico, di qualsiasi specie di verbi «intransitivi».
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Tizio Caio Caio Tizio
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