Per riconoscere chiaramente quali sono i segni che, in algebra, corrispondono ai verbi, occorre, prima di tutto, vedere sotto che forma si presentino, nel linguaggio algebrico, le «proposizioni».
Poiché per proposizione s’intende - è la definizione tradizionale - una frase in cui qualche cosa si affermi o si neghi (una frase, cioè, in cui si esprima qualche opinione o persuasione, vera o falsa che essa sia), non saranno da classificare tra le proposizioni le semplici «espressioni algebriche», le formule cioè nelle quali figurino soltanto numeri, o lettere, comunque combinate con segni di operazioni o di funzioni, senza che sia interposto alcun segno di eguaglianza o di diseguaglianza.
I segni di eguaglianza (o di diseguaglianza) che, posti tra due espressioni algebriche, indicano che il valore della prima è, o si vuole che divenga, uguale (o superiore) al valore della seconda, compiono, quindi, in algebra, lo stesso ufficio che hanno i verbi nel linguaggio comune, in quanto è mediante tali segni, e solo mediante essi, che si può, coi soli segni dell’algebra, affermare o negare qualche cosa degli oggetti, o delle quantità, di cui si parla.
E non solo tali segni hanno ufficio di «verbi»; essi inoltre - come i verbi «eguagliare», «superare», ecc., che ad essi corrispondono nel linguaggio ordinario, - hanno ufficio di verbi «transitivi».
Indicare, infatti, in linguaggio algebrico, che una data espressione «è eguale» o «maggiore», senza aggiungere di quale altra, equivale a non dir nulla affatto, precisamente come, nel linguaggio ordinario, il dire, per esempio, che un dato oggetto «accompagna», o «precede», senza accennare quale sia l’altro oggetto che esso accompagna o precede.
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