Le discussioni interminabili sul tempo, sullo spazio, sulla sostanza, sull’infinito, ecc., che occupano tanta parte in certe trattazioni filosofiche, forniscono numerosi e caratteristici esempi delle varie specie di «questioni fittizie» alle quali può dar luogo la pretesa di dare, o di ricevere, definizioni propriamente dette, in quei casi in cui le parole o nozioni delle quali si tratta di determinare il significato sono di tal natura da non poter essere definite se non ricorrendo a procedimenti analoghi a quelli rappresentati, in algebra, dalle «definizioni per astrazione».
Si è parlato fin qui dei mezzi che l’algebra ha a disposizione per esprimere proposizioni isolate.
Ma quando si discute, o si cerca, o si dimostra, si ha altresì bisogno di poter collegare le proposizioni le une con le altre; si ha cioè bisogno di mezzi per esprimere i rapporti di dipendenza o di indipendenza che sussistono, o che si vogliono stabilire, tra esse.
A tale scopo servono, nel linguaggio ordinario, quelle particelle che i grammatici distinguono col nome di «congiunzioni».
L’ufficio di queste, rispetto alle proposizioni, si può paragonare a quello che adempiono le preposizioni rispetto ai nomi.
Allo stesso modo come una preposizione, posta tra due nomi, dà luogo a una locuzione atta a esercitare l’ufficio di un nuovo nome, così anche una congiunzione, posta tra due asserzioni, dà luogo a una nuova asserzione, la cui verità o falsità può anche essere indipendente dalla verità o falsità di ciascuna di esse.
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